Diversi sono gli indicatori, non ultimi quelli presenti nell’autorevole rapporto dell’Ocse, da cui si desume che la scuola italiana è allo sfascio. Se ne può avere percezione attraverso l’esame dei libri di testo che danno un’attendibile rappresentazione di quanto avviene nel chiuso delle classi. Prima di parlare di scuola sarebbe opportuno esaminarne alcuni di diverse discipline, case editrici e ordine scolastico e porsi le domande: «Spenderei il mio tempo su questa roba? Come risponderei, da giovane, a questo intruglio?»
Io l’ho fatto e mi sono convinto che i libri di testo, assieme alle metodologie didattiche in uso, sono perniciosi per la crescita emotiva e intellettiva dei giovani al punto da ritenere che, presidi ed insegnanti, si trovino in una di quelle tipiche situazioni in cui l’obbedienza cessa di essere una virtù. Opinione personale, ovviamente! Rifiuto però categoricamente l’obiezione: «Ci sono poi gli insegnanti a rendere ‘commestibili‘ i libri di testo». Che senso ha pagare chi fa libri brutti e poi anche chi deve renderli digeribili? Anche perché la bruttura dei libri, e in particolare il largo uso di quesiti da settimana enigmistica, è la risposta intelligente alla situazione assurda di costringere i giovani a ingerire una brodaglia insulsa.
Quali le cause dello sfascio? C’è chi sostiene che una delle cause primigenie, anche se non l’unica, vada fatta risalire alla cancellazione di alcuni valori essenziali quali ubbidienza, disciplina e castigo da attribuire a don Milani e alle sue teorie nonché a certe filosofie nate nel ’68 e di cui nessuno oggi ha memoria.
Io ritengo invece che il miserevole stato della scuola sia da attribuire all’incapacità di tutti – intellettuali, ministri, insegnanti, genitori d’ogni orientamento politico – di misurarsi con la realtà nuova e inedita che vede, al di là di percentuali irrilevanti ai fini del presente ragionamento, la presenza a scuola del 100% dei giovani fino a diciotto anni. Fatto – fatto e non opinione – scaturito dalla riforma della scuola media del 1962 ma anche dalla quasi totale scomparsa dell’artigianato e del lavoro manuale in agricoltura e nell’industria e dell’espansione del terziario e del ceto impiegatizio.
Se prima, nella migliore delle accezioni, la scuola era palestra per i futuri professionisti (cosa tutta da dimostrare perché è più probabile che la professione, come l’arte e il mestiere, si imparava a fianco del genitore nello studio, nel laboratorio, nella bottega) ora non può più esserlo in quanto è ovvio che tutti non possono diventare professionisti ed è anche assurdo che tutti si cimentino verso tale obiettivo. Trattasi di una novità assoluta nella storia dell’uomo a cui, tuttavia, non ha corrisposto una adeguata – e direi radicale – modifica delle finalità e delle metodologie. Non si è percepita la discontinuità col passato e si è proceduto col solito andazzo rattoppando, scimmiottando, deformando. Si è fatto come chi, dovendo affettare salumi, si era dotato di un buon coltello, dovendo poi piantare viti, si ostinava nell’uso del coltello perdendo, assieme all’efficienza, credibilità ed autorevolezza. Il paragone non è paradossale né bizzarro! La scuola, di fatto non selettiva, è tutt’ora imperniata sulla interrogazione e sul voto (altra cosa sono verifica e orientamento), strumenti precipui della selezione. E poiché selezione non c’è, né può esserci – se non altro perché non si saprebbe né dove collocare i giovani espulsi né come occupare gli insegnanti in esubero – ne consegue che interrogazioni e voti, come anche altre forme di minacce quali il sette in condotta, non sono per nulla temuti.
La conclusione a cui si sarebbe dovuti arrivare è che in una scuola in cui tutti, di fatto, permangono non ha senso la pratica delle interrogazioni e dei voti. A questo forse tendeva la riforma del ministro Malfatti con l’introduzione, nella scuola di base, dei giudizi al posto dei voti. Ma il diverso nome non impedì, dopo che Malfatti non fu più ministro, che restassero inutili strumenti di misura a nulla finalizzati in quanto, sia con i voti bassi – i quattro che in sede di scrutinio diventano sei – sia con quelli alti, si è andato e si va comunque avanti verso i licei e i professionali e poi all’università, a scaldare nuovi banchi fino al precariato permanente a basso contenuto professionale.
Quale ruolo assegnare alla scuola di tutti? E quali metodologie di conseguenza adottare?
Ritengo che una realtà inedita vada affrontata in modo inedito. Gli intellettuali privi di potere non possono pensare soluzioni in quanto queste vanno correlate ai mezzi messi a disposizione e agli strumenti di attuazione. Possono lanciare qualche spunto. La mia idea è che la scuola potrebbe essere la palestra dove i giovani imparino quel che prima imparavano dalle famiglie e dai capimastri: il saper fare e il saper essere. È ovvio che saper fare e saper essere sono collegati e si alimentano reciprocamente tuttavia, nelle varie fasi del percorso formativo, si può pensare ad attenzioni e metodologie differenziate.
Per il saper fare, tranne che per le competenze elementari quali leggere, scrivere e tirar di conto, la metodologia – supportata, ovviamente, da una didattica efficace ed efficiente – non può che essere quella selettiva. Fortemente selettiva, per il bene dei giovani e della società che necessita di operatori competenti e appassionati del loro lavoro.
Per il sapere essere che attiene principalmente alla sfera emotiva – da sempre e sempre più trascurata dalla scuola – e alla conoscenza, a fini non professionali, di quanto prodotto dall’uomo nel corso dei secoli nei vari campi del sapere, la metodologia non può essere selettiva. Assolutamente! Come si fa e che senso ha misurare con una relazione d’ordine quali sono voti e giudizi, le emozioni suscitate dalla lettura di un passo letterario, dall’ascolto di un pezzo di musica, dalla visione di un film? Quanto invece è importante curare il modo con cui i giovani leggono e vivono le proprie emozioni e come, di conseguenza, si relazionano con gli altri. In altre parole: curare e coltivare l’educazione emotiva.
Si può allora pensare a un’articolazione della scuola in tre distinti ambiti.
Scuola primaria fino a 14 anni, finalizzata alla educazione emotiva e all’amore per la cultura riempita, in pari misura, da fruizioni di opere d’ogni genere e da espressioni di creatività opportunamente stimolate, guidate, arricchite, con assoluta abolizione di interrogazioni e voti e con l’adozione di metodologie inedite quali, per esempio, quelle del cosiddetto Teatro sociale o delle Arti terapie.
Scuola secondaria composta da due parti di pari misura: una prosieguo della scuola primaria con le stesse metodologie e con contenuti adeguati alla diversa età e l’altra, finalizzata al saper fare, selettiva come sopra detto e dove i selezionati non vengono abbandonati a se stessi ma seguiti nell’apprendimento dell’arte e del mestiere in quanto lo Stato, essendosi sostituito al padre nella formazione dei giovani ha, come il padre, il dovere di seguirli fino alla maggiore età.
Scuola permanente fatta di corsi e laboratori liberi tenuti da liberi docenti su tematiche e discipline varie per i giovani di tutte le età.
Per meglio avere il senso della differenza tra la scuola del saper essere e del saper fare basta pensare ai diversi approcci verso la musica da parte di chi la coltiva per il benessere della sua anima e di chi, invece, per diventare concertista di professione. Lo stesso vale per tutte le altre discipline: dalla matematica alla letteratura, dalla filosofia alla scienza, dalla storia alla psicologia. Nella scuola si è preteso e si pretende – con l’unica metodologia imperniata su spiegazione, interrogazione, voto – di coltivare sia il saper essere sia il saper fare con grave nocumento per entrambi e pesante perdita di credibilità della scuola stessa.
Questa è un’idea da arricchire, da precisare, da articolare, da sviluppare e questo può non essere un grosso problema, le difficoltà vere nascono nell’attuazione, nel fare in modo che oltre quindici mila scuole e oltre un milione d’insegnanti la mettano in pratica. Non è cosa da poco! Occorre pensare alle somme adeguate da investire e alle azioni di supporto necessarie perché una così radicale riconversione possa prendere forma. Insomma progettare un processo complesso che va guidato, supportato e corretto per un decennio almeno, alla fine del quale il risultato sarà certamente discosto dall’idea d’origine. Bisogna allora pensare al modo di valutarlo che non sia autoreferenziale, individuare cioè degli indicatori di qualità quali, per esempio, il numero di libri letti o le presenze a eventi culturali o le quantità di birre e di alcool e di droghe consumate o indici del benessere psicofisico dei giovani e degli adulti o . . . e seguirne l’andamento nel tempo.
Ci sarà un governo che abbia non solo la voglia ma anche tutto il tempo necessario per condurre un’operazione del genere? Chi parla di riforme e di riformismo avrà messo in conto il problema dei tempi lunghi per attuare e metabolizzare così radicali e profonde trasformazioni?
Ragusa, 13 giugno 2008
Ciccio Schembari
Pubblicato sul numero 36 / 2008 “E io pago” della rivista on line www.operaincerta.it
Articolo pubblicato sul n. 105/2008 della rivista OPPInformazioni