Il fatto
Lalla, Peppe e Franco (nomi di fantasia ma fatto realmente accaduto) sono tre ragazzi di terza media. Lalla è vispa e sbarca il lunario scolastico alla meno peggio ovvero con scarsissimo interesse. Peppe pluriripetente è un professionista patentato del rifiuto della scuola. Franco è di quelli convinti che studiare le cose incomprensibili che la scuola oggi propone, serva a qualcosa, ottiene buoni quanto inutili voti ed è anche disponibile coi compagni.
Un giorno, per caso, Lalla spara una battuta “felice”: «Peppe, Franco ti guarda il culo!»
Peppe non si lascia scappare l’occasione e assieme a Lalla mette su un teatrino volto ad accreditare Franco come gay. Franco non riesce a far fronte, a rispondere per le rime e subisce lo scherno dei due. Nessuno degli altri reagisce, la cosa monta, si trasferisce in corridoio e coinvolge anche gli alunni di un’altra classe.
Franco, umiliato e offeso, racconta tutto alla madre. Questa denunzia la cosa ad una Prof. la quale impartisce, a tutta la classe, una ramanzina generica sul rispetto reciproco e bla, bla di seguito.
La mamma di Franco, per nulla soddisfatta, informa della cosa un’altra Prof. che interviene in modo energico e pretende che i due “bravi”, Lalla e Peppe, chiedano pubblicamente scusa a Franco davanti ai compagni e della propria classe e dell’altra coinvolta. Peppe, da buon professionista del rifiuto, accetta e gioca alla perfezione la parte del contrito. Lalla, pur ricalcitrando, percorre per intero il suo calvario.
Il giorno dopo la Prof. “giustizialista” è convocata in presidenza dove, oltre al diretto superiore, ci sono due donne, l’una seduta e l’altra in nervoso passeggio, entrambe in chiaro atteggiamento aggressivo e corrispondenti rispettivamente alla mamma e alla zia di Lalla. Il Preside invita la Prof. ad esporre la sua versione dell’accaduto costituendo così, di fatto, un tribunale per cui succede quel che succede in ogni tribunale ovvero ognuno sostiene ostinatamente le proprie ragioni. Il dibattimento assume toni sempre più accesi, l’atmosfera si surriscalda e, come se non ci fosse già abbastanza confusione, si decide l’ascolto anche dei ragazzi. La sceneggiata va avanti per un po’ ma, come tutte le cose, ha un termine, il Preside non emette alcuna sentenza e ognuno esce convinto di avere affermato le proprie ragioni.
Il mio cuore mi porta ad immaginare un canovaccio diverso in cui Franco reagisca allo scherno assecondandolo e, di fatto, stoppandolo del tutto. Una evoluzione del genere presuppone uno sfondo in cui ciascun ragazzo abbia piena coscienza, soprattutto sul piano emotivo, di contare dentro il gruppo classe. Pretesa vana per una scuola che da sempre ha ignorato l’emotività per cui a Franco e agli altri non resta che subire il sarcasmo di Lalla e di Peppe. Perché non leggere in ciò un chiaro segnale che essi si sentano impotenti sia rispetto al potere scolastico con le sue parole inincidenti ed estranee sia a quello del bulletto di turno?
La prima Prof., con la ramanzina assolutamente inefficace, manda un chiaro messaggio di impotenza: conosce i fatti e gli autori, disapprova l’accaduto, e tuttavia non interviene in merito. Si guarderanno bene i ragazzi dal denunziare eventuali altri abusi, se l’approdo è una tiritera dove tutti sono “colpevoli”.
La seconda Prof. sa dell’insuccesso della collega, non pensa a raccordarsi con i colleghi e, novella Giovanna d’Arco, fa giustizia. Altro messaggio chiaro: il consiglio di classe è una finzione giuridica, la sua collegialità è impotente, esistono singoli Prof. e, in quanto singoli, deboli.
Se il mancato ricorso della prima Prof. al consiglio di classe può essere spiegato con una sottovalutazione dell’accaduto, quello della seconda è decisamente un errore forse dovuto ad una, magari giustificata, mancanza di fiducia nella collegialità.
In conseguenza dei due errori, uno di sottovalutazione e uno di fiducia, l’incidente, piuttosto che chiudersi, monta e va a finire dal Preside ovvero dal responsabile del servizio e di tutto ciò che accade dentro la scuola. Dal responsabile – pagato proprio per coordinare, orientare e stimolare il servizio esplicato dai Prof., e perciò ne è responsabile – ci si aspetta che prenda in mano la situazione, la esamini assieme ai suoi collaboratori ovvero i Prof. del consiglio di classe e decida il da farsi. Il nostro invece non fa nulla di tutto ciò e assurge ad un ruolo che non gli compete: diventa arbitro. Che si senta impotente anche lui nel suo ruolo istituzionale di coordinatore?
Come e quando, da parte dei professori, un riscatto dall’impotenza per diventare protagonisti di crescita individuale e collettiva?!