Di Salvatore Battaglia
Ragazzini vestiti da uomini eravamo. Alle medie dai Salesiani, dove io ero – per alcuni – lì come per sbaglio. Unico, forse, figlio della classe operaia in quel luogo.
La Scuola dei Salesiani di Ragusa era privata. Gli altri compagni e compagne erano o figli e figlie di militari, o di professionisti, o di impiegati pubblici, o di commercianti. Ero, per le regole di classe di quegli anni, fuori posto. Anche la mia preparazione, dopo le elementari e nei primi mesi della prima media era inferiore a quella di molti compagni, ma ben presto pareggiò la loro: forse a febbraio non avevo più nessun handicap verso alcun compagno. Le ragazze mi sembravano grandi, molto grandi, e io mi sentivo piccolo, molto piccolo, ma non di statura. Loro guardavano quelli di seconda e terza media da undicenni si interessavano ai quattordicenni che, a loro volta erano spesso figli di papà benestanti che li portavano a scuola in auto. Ma erano già dei piccoli rivoluzionari. Taluni avevano già il motorino, io no, mi accompagnava mio padre con la 750 FIAT Giannini…
Ricordo ancora uno studente (ho in mente il suo cognome che qui non riporto, ma forse, se leggerà, si potrà anche riconoscere), militante già con il fratello più grande della FGCI, cioè della Federazione Giovanile Comunista Italiana, che, quando pioveva, scendeva davanti alla nobile scalinata, da una grossa Mercedes grigia, pulitissima con suo padre al volante. La militanza politica era prevalentemente a sinistra, ma i figli dei notai e dei bancari di destra. Io che mi sentivo socialista, per via di mio papà e delle prime letture politiche, mi sentivo esterno, estraneo a un mondo che era profondamente borghese, eppure parlava di proletariato, di lotta di classe e di rivoluzione. C’era qualcosa che non mi quadrava.
I maschietti erano obbligati dal dress code dell’istituto e del tempo a giacca e cravatta, codice che il ’68 avrebbe smantellato. Le ragazze indossavano il grembiule nero, che le rendeva carine come dei corvi giovinetti. E le professoresse idem, anche loro con il grembiule nero. I professori, invece, indossavano giacca e cravatta come noi ragazzini.
Non avevo capi di gran pregio, ma ero pulito e dignitoso. Non avevo ancora imparato a far bene il nodo della cravatta e, ricordo, una mattina, una mia compagna milanese la Morena, mi sistemò con cura il nodo e mi diede un buffetto cameratesco. Non so se avesse simpatia per me, ma lo fece con naturalezza estrema. E io neanche mi vergognai. Lo dissi a mia madre e lei sorrise. Ma poi imparai a fare bene i nodi della cravatta, finché la cravatta fu un obbligo, perché poi venne il tempo dei maglioni, dell’eskimo verde oliva, dei jeans e delle scarpe da ginnastica.
I ‘istituto era cambiato. La rivoluzione era alle porte, ma il racconto di quei tempi è cantata meglio dal mio amico Giancarlo, che ne ha fatto una saga, una serie di fatti narrati che meriterebbe la pubblicazione di un volume. Il mio amico Gino ha pubblicato un volume, Le case di via Corso Italia, dove racconta quegli anni dalla prospettiva di dove abitavano famiglie di operai come la sua. Non so se altri compagni del tempo abbiano scritto qualcosa. Sarebbe bello.
Ho cercato sul web quella Morena e mi pare di averla trovata, mi pare che faccia attività nel mondo della comunicazione, nella sua Milano ma mezzo secolo fa mi aggiustava il nodo della cravatta.
Tanto tempo è passato e siamo ancora qua per qualche tempo a raccontarcela, più in età, 66 anni …con la memoria buona, dopo vicende tutte diverse, studi, lavori, amori, figli fatti e figli evitati, forse anche figli inconsapevoli di essere stati generati da quelli della sezione F. Un saluto e un abbraccio a chi di loro, della vecchia F, mi possa e mi voglia leggere.