Di Salvatore Battaglia
“Ziti a vasàri e babbalùci a sucàri nun pònnu mai saziàri”
(innamorate da baciare e lumachine da succhiare non possono mai saziare)
La Sicilia, patria per eccellenza dell’umidità, ospita molte chiocciole nel suo territorio; il più delle volte in zone boschive dove i più determinati vanno alla ricerca non solo di funghi ma anche appunto di babbalùci. D’altronde era impensabile credere che il dialetto non avesse coniato una parola a sé per definire questi simpatici animali con il guscio sempre sulle spalle. Non è così?
In verità l’origine del termine non è propriamente sicula, anzi. Il sostantivo è stato importato nelle coste dell’isola dall’antica Grecia, nella cui lingua boubalàkion (βουβαλακιον) significava sia lumaca che bufalo, dal momento che entrambi gli animali avevano delle corna sulla testa. Nella Trinacria il suono era stato modificato e si era evoluto in buvalàci, rimanendo tale per alcuni secoli.
Le lumache, insieme a pochi altri molluschi, potrebbero occupare un posto d’onore nella storia del cibo; dalla preistoria hanno sempre fatto parte dell’alimentazione dell’uomo fino ad arrivare ai giorni nostri.
Simbolo della transizione della storia umana dalla caccia alla pastorizia, Le lumache rappresentano il primo esempio di allevamento che non richiede equipaggiamenti speciali, non è rischioso e la carne che ne deriva ha un ottimo sapore e un buon valore nutritivo. Ufficialmente la lumaca debuttò nella storia scritta per mano di Sallustio (87-35 a.C.), il quale racconta un simpatico aneddoto su un soldato ligure che, grazie alla sua smodata passione per le lumache, riuscì a trovare una via d’accesso per il tesoro di Giugurta facendo risultare vincente una delle più spericolate imprese belliche romane.
Le lumache erano tenute in grande considerazione sia da Greci che dai Romani – abili allevatori – che le nutrivano con mollica, sapa e foglie di alloro considerandole cibo di lusso. Nonostante ciò si potevano trovare anche nelle osterie frequentate dai ceti popolari dove se ne servivano per aumentare le vendite di vino, perché, raccontano le cronache dell’epoca, chi mangiava molte lumache beveva anche molto vino.
La richiesta delle lumache era tale che, così come narra Plinio, un certo Fulvio Lippino nella sua proprietà di Tarquinia realizzò dei vivai destinati ad allevare lumache di differenti specie; in questo modo poteva tenere separate le lumache bianche (che nascono nella campagna di Rieti), le illiriche che si distinguono da una grandezza straordinaria, le africane (molto feconde) e le soletane.
L’idea fu ben presto copiata e, per poterne disporre a piacimento, si allevavano le lumache in recinti vicino casa.
Un suggerimento intrigante su come cucinarle arriva da Apicio, grande cuoco dell’impero che, nel celebre “De re coquinaria”, consigliava di tagliare l’opercolo per far risvegliare le lumache e di nutrirle per un solo giorno con latte e sale e solo latte nei giorni successivi.
Ogni ora le lumache andavano pulite dagli escrementi e quando, ingrassate al punto da non essere più contenute nel guscio, si friggevano e si condivano con il garum (una salsa liquida di interiora di pesce e pesce salato) mescolato al vino. In Italia, con la caduta dell’Impero Romano, la lumaca perde la sua valenza di cibo godereccio ed esce dalle osterie. Chiusi gli allevamenti, le lumache continuano ad essere mangiate solo da chi va a cercarle nei campi, soprattutto dopo i primi acquazzoni primaverili o autunnali.
Da allora la lumaca è rimasta presente nell’alimentazione italiana solo tra le popolazioni rurali e montane, le quali non hanno mai smesso di raccoglierle per tenere viva la gastronomia siciliana elaborando in ogni regione ricette di lumache, spesso uniche.
Negli ultimi decenni la riscoperta dei cibi della tradizione ha rilanciato anche il consumo delle lumache e i tabù gastronomici ad esse relative si sono affievolite tanto che, con la nascita dell’elicicoltura moderna – l’allevamento a ciclo biologico completo per sopperire, attraverso una produzione gestita e controllata, la diminuzione e la mancanza del prodotto – c’è stata una crescita costante dei consumi. Si è passati da un volume di 20.000 tonnellate di vendita (nel 1980) ad una stima di 320.000 tonnellate nell’anno 2000.
La mia esperienza personale è sempre legata alla mia terra di origine, la Sicilia. Sin da bambino ho sempre mangiato le lumache raccolte nei monti Iblei (piccole e marroni); nella mia memoria “ il periodo delle lumache” (tra fine ottobre e inizio novembre) era una vera e propria festa; ricordo ancora i pentoloni enormi in cui venivano lasciate spurgare per giorni così da poterle preparare per il pranzo della domenica.
In Sicilia si cucinano con passata di pomodoro e cipolle, come le preparava la zia Maria e come le faceva mio nonno.
Le lumache della zia Maria…
INGREDIENTI: 3 kg di lumache – 1 litro di passata di pomodoro – sedano, carote e cipolla per il soffritto – peperoncino – olio extravergine di olive – sale q.b.
Per lo spurgo:
Le lumache una volta raccolte devono essere lasciate in un contenitore pulito, areato e chiuso da tutti i lati perché gli animaletti non escano. Devono essere lasciate spurgare in questo modo per qualche giorno. Quando le lumache si chiudono nel loro guscio formando la pellicina bianca sono pronte per essere cucinate. In seguito, le lumache vengono spostate in una bacinella piena di acqua tiepida, dove usciranno dal guscio e verranno lavate e ripulite a mano da tutte le scorie. Così pulite, le lumache vengono trasferite in una bacinella asciutta di plastica o di ceramica ben capiente e in cui vengono cosparse da sale grosso, e poi mescolate rapidamente ma delicatamente.
Ricordo che mio nonno le girava dentro una bacinella di zinco smaltata (quelle che venivano usate per lavare i panni), e mia nonna che disapprovava tutti i procedimenti di suo marito. A questo punto le lumache potevano di nuovo essere lavate in acqua tiepida e poi messe in cottura nel sugo, con sedano, carota e cipolla soffritti per 20 minuti.
Il detto della nonna Marianna…
“cu mancia babaluci e vivi acqua, sunati li campani picchì è mortu”, ovvero mai bere acqua per accompagnare questo piatto.
Il mio primo ricordo dei Babbaluci è semplicemente una canzone…
Mio padre Vanninu Testarossa u Varbieri ri l’Archi oltre a fare il mestiere di barbiere si dilettava a cantare e suonare la chitarra durante piccole ricorrenze nel nostro quartiere. Un brano molto richiesto e che suscitava anche mote risate era dedicato ai Babbaluci…e che lui amabilmente lo eseguiva. Riporto qui per i più che lo sconoscono il testo integrale…
I BABBALUCI
Vidi chi dannu ca fannu i babbaluci ca cu li corna ammuttano i balati, su unn‘era lestu a jittarici na vuci vidi chi dannu ca facianu i babbaluci.
C’era na vota, na vota un muraturi ca lu travagliu ah nun putia truvari e priava sempri a Santu Cuttufatu truvau u travagliu e cadiu do fabbricatu.
C’era na vota, na vota un surdatu aviu l’ugnu du pedi ‘mpussunatu e priava sempri a Santu Gabrieli ci guariu l’ugnu e ci cadiu lu pedi.
C’era na vota na vota un vicchiareddu, ca avia lu sceccu ‘anticchia attuppateddu e priava u disgraziatu ‘nginucchiuni si stuppa u sceccu e s’attuppau u patruni.
Lu tavirnaru di l’Abbaddarò avia tri giorni ca un putia pisciari e priava a Santu Cuttufatu pisciò vintitrì litri di moscatu.