TI AMO MA NON TI DESIDERO…

Una corrente di malevolenza attraversa questo luogo immutabile dell’indecisione, del delirio mistico che possa esistere un amore fra un uomo e una donna privo del desiderio. La malevolenza tradisce la sua presenza alla prima occasione in cui chi non sa desidera la castrazione di chi sa, a supremo suggello dell’odio per l’altro sesso che è covato nel grembo delle passioni più intense. E non è a caso che parliamo di castrazione, dal momento che – sotto la pressione intollerabile degli schemi culturali – quasi sempre la parte dell’indecisione è quella della donna, che al culmine dell’angoscia fobica per il sesso maschile, inventa questa sublime costruzione che – come ogni bravo sintomo – serve due padroni insieme: avvicina l’oggetto, verso cui sente un reale trasporto, e nello stesso istante ne prepara la distruzione, in un impeto razionalizzante che raccoglie dove può i segni della volontà maschile di infettare, di prevaricare, di manipolare.

Il modello che banalmente viene a proporsi come chiave interpretativa, in queste occasioni, è ovviamente quello paterno, nel quale si crede sia prevista la possibilità di un sentimento traboccante assolutamente privo di infezioni sessuali. Il fatto è che in genere chi ordisce queste trappole ha introiettato una scena edipica funestata dall’ambivalenza sessuale nei confronti del genitore, di cui si vorrebbe poter disporre una sorta di erezione controllata, da ostentare allo sguardo nello stesso momento in cui si cala il colpo castrante.

La scena richiesta da questa realtà complessuale è abbastanza semplice: l’oggetto è adescato con un inventario di formule seduttive, fra le quali probabilmente la più incisiva è quella che mima la mancanza di competenza nell’arte del sedurre; l’oggetto è irretito in una specie di promessa non detta ma agita, che consiste nel frullare in un unico contenitore la dipendenza da esso e – insieme – la pervicace volontà di decidere in autonomia, trattenendo al contempo l’Altro ogni volta che mostra segni di volersi sottrarre a questa morsa diabolica; si cala l’ascia con la quale si infligge all’oggetto la pena per essersi eccitato; lo si distrugge per poter risorgere dalle sue macerie (come un parto tragicamente concluso con la morte della madre).

Il pericolo incarnato in questi esseri un po’ vampireschi, che si nutrono delle ferite altrui, è disseminato nelle diverse circostanze in cui è possibile una dimensione di intimità: il fuoco che ne deriva è un ottimo propellente per questa macchina dispensatrice di segni ambigui,  al cospetto dei quali è vana ogni intelligenza delle cose, che può solo dotare il malcapitato degli organismi con cui immunizzarsi per le volte successive.

Ciò che proviene da questa drammatizzazione involontaria è poi una sorta di coltura del patetico, nella quale è persino piacevole esprimere i segni di una sofferenza antica che si è resa quasi atavica: la prevaricazione maschile contro la fragilità femminile. Una sinfonia dell’imbecillità (come avrebbe detto Lacan….) che suona come una sinistra nenia lamentosa.