“TROPPO PERFETTO PER NON ESSERE CAMBIATO”. L’ANOMALIA DEL SENATO NELL’ITALIA DEL XXI SECOLO

Il rullo compressore di Renzi macina e travolge tutto. Per contrappasso crescono i poteri di veto esterni ed interni al governo (ma anche al suo partito). Lo sport che sta appassionando i giornali in questi giorni è quello di stilare le liste dei “conservatori” e dei “riformatori”. Del resto, come ricordava in un lucido passaggio del Principe (1513) Nicolò Machiavelli l’azione dei riformatori è sempre complicata e frenata dalle reazioni che solleva chi teme di perdere le rendite politiche delle quali gode o chi non vede bene le prospettive sistemiche future e magari ciò che potrebbe guadagnarci.

Sul tema del Senato i riformatori hanno però in gran parte ragione. Mi riferisco alla parte della riforma che incide, e pesantemente, su struttura e funzioni del Senato, qualche perplessità suscita invece la parte propositiva, ciò che dovrebbe accadere dopo. Ma procediamo con ordine. Innanzi tutto, è bene chiarire che ci sono due anomalie che caratterizzano il nostro paese in chiave comparata. L’Italia si contraddistingue tra le principali democrazie occidentali per il numero sproporzionato di parlamentari rispetto alla popolazione: nel complesso parliamo di 945 parlamentari (630 deputati e 315 senatori). Gli Stati Uniti, con oltre 300milioni di abitanti nel 2008 (noi siamo 57milioni), hanno appena 435 deputati e 100 senatori (eletti dagli elettori due per ogni stato); mentre la Germania si ferma a 598 deputati e appena 68 senatori eletti dai Lander (Stati membri). Per trovare una camera bassa più numerosa in giro per il mondo dobbiamo guardare alla Cina (quasi tremila deputati per una popolazione di oltre un miliardo di abitanti), ma si tratta di un regime non democratico, e il Regno Unito con 659 deputati e ben 731 Lords nominati dalla regina. Potremmo continuare in questo gioco delle dimensioni ma il dato è chiaro. C’è, poi, la questione della percezione negativa che l’esercito del personale politico elettivo ha presso l’opinione pubblica nazionale. Opinione rafforzata da comportamenti dei nostri parlamentari manifestamente volti alla sopravvivenza politica e alla conservazione dei privilegi. 

La seconda anomalia, più grave dal punto di vista sistemico, è che l’Italia è l’unica democrazia occidentale (se si esclude la Romania) caratterizzata da quello che viene chiamato il bicameralismo paritario, talvolta detto impropriamente “perfetto”. Dicevo impropriamente, perché se è perfetto che motivo avremmo di cambiarlo? Sarebbe alquanto bizzarro. In effetti, il punto è che il sistema parlamentare nostrano ha due camere (Camera dei deputati e Senato della Repubblica) che hanno le stesse identiche funzioni in fatto di fiducia/sfiducia del governo e di produzione legislativa e, inoltre, presenta due sistemi elettorali che  per tutta la cosiddetta prima Repubblica erano di fatto simili e lo sono stati all’ingrosso fino al Porcellum (2005). La regola, nelle democrazie che funzionano, è invece: poteri diversi e forme di investitura altrettanto diverse (talvolta addirittura con elezioni di secondo grado come in Germania o Francia, o per nomina come in Inghilterra). In Italia invece i poteri simmetrici o paritari hanno prodotto un allungamento dei tempi dell’iter legislativo e l’aumento della possibilità di scambi e accordi (spesso di basso profilo) tra partiti, quando non hanno semplicemente azzoppato il governo in carica (perché sostenuto da una maggioranza coesa solo alla Camera). Quindi il funzionamento del nostro bicameralismo è stato tutt’altro che perfetto e da qui l’esigenza urgente e avvertita da decenni di una modifica.

Modifica e riforma non vuol dire però abolizione. Il che pone alcune questioni la prima organizzativa, la seconda rappresentativa. Sotto il primo profilo c’è la questione del costo degli apparati del Senato che solo in minima parte dipendono dalle indennità vertiginose (comparativamente a quanto accade negli altri paesi europei e non solo) dei senatori e che riflette l’auto-amministrazione di un apparato di servizio che è diventato una macchina meravigliosa che dispensa al personale amministrativo privilegi che spesso sono di gran lunga superiori a quelli dello stesso personale elettivo. Insomma, le nostre istituzioni (un po’ a tutti i livelli) sono tenute assieme da una tanto formidabile quanto insopportabile (alla sensibilità del cittadino comune)  interdipendenza dei privilegi che le ha trasformate in una “società di coorte e di cortigiani”.  La questione rappresentativa è politicamente più delicata. In realtà, per quanto con le ondate più recenti di democratizzazione (a partire dagli anni ’70) si è diffuso la prassi dei monocameralismi, ragioni per puntare su un bicameralismo, purché asimmetrico o non paritario, ve ne sono (va detto che in questo caso la questione dell’elezione indiretta o diretta o, quella collegata, nel secondo caso, della sua proporzionalità perderebbe di significatività). Tanto più se pensiamo di andare nella direzione di un sistema di decentramento regionale che vorremmo quasi-federale. Il condizionale è d’obbligo visto che il federalismo italiano di fatto si è arenato da tempo e i segnali di una regressione in direzione neo-centralista sono forti già dal governo Monti. Ad ogni modo un paese di tradizioni civiche diverse e dei mille campanili avrebbe tutto da guadagnare da una adeguata e più incisiva rappresentanza dei territori nella cosiddetta camera alta (come in Germania, Stati Uniti o Canada). Inoltre, un sistema autenticamente decentrato con un Senato regionale costituirebbe un efficace contraltare al rafforzamento del governo centrale.  In casa “5 stelle” vale l’argomento che il bicameralismo paritario favorisce il controllo e il raffreddamento delle decisioni. E’ vero, e si trova scritto in tutti i testi di diritto costituzionale, tuttavia valgono tre rapide considerazioni. In molti paesi dove il Senato ha un forte ruolo di controllo il bicameralismo non è paritario: il Senato americano è una delle camere alte più forti al mondo per poteri di controllo e anche il Consiglio federale tedesco (Bundesrat) ha poteri di veto efficaci nelle materie federali. Nell’Italia repubblicana il Senato paritario rispondeva invece alla necessità di realizzare un sistema consociativo e di “equilibrio di potenza” tra partiti (principalmente Dc e Pci) in un contesto di sfiducia reciproca e di istituzioni deboli. Soprattutto, un Senato paritario con la Camera richiede un sistema elettorale congruo (come nella Prima Repubblica) altrimenti la perfezione rischia di produrre un funzionamento tutt’altro che perfetto.

*Università della Calabria