TUTTO QUELLO CHE C’È DIETRO… IL GRASSO ADDOMINALE

Nel grasso intra-addominale è possibile distinguere tre diversi componenti: il grasso omentale, il grasso sottocutaneo e il grasso extraperitoneale. L’adipe viscerale, alias grasso omentale, è quella parte di tessuto adiposo concentrata all’interno della cavità addominale e distribuita tra gli organi interni e il tronco. Si differenzia dal tessuto adiposo sottocutaneo, concentrato nello strato più profondo della cute, e da quello intramuscolare, distribuito invece tra le fibre dei muscoli.

È ormai indiscusso che il grasso viscerale sia molto più pericoloso di quanto si possa pensare, soprattutto in termini di rischio cardiovascolare e per la sua correlazione con condizioni patologiche quali diabete, iperinsulinemia, ipertensione e dislipidemie. In particolare, quando due o più di queste condizioni coesistono, si può già parlare di “sindrome metabolica”, malattia multifattoriale caratterizzata da uno stato di infiammazione cronica e quasi sempre connessa con un eccesso di grasso viscerale. Cerchiamo di capirne di più.

 

Numerosi studi hanno dimostrato che valori elevati di circonferenza addominale si associano all’aumento del rischio di alterazioni metaboliche (infiammazione, insulinoresistenza, dislipidemie) e di coronaropatie. Infatti, la circonferenza addominale è strettamente correlata al tessuto adiposo viscerale, che rappresenta un fattore di rischio più rilevante rispetto al tessuto adiposo sottocutaneo, ed è anche un potente indicatore della sensibilità insulinica.

 

Uno studio prospettico tra i più recenti ha analizzato la mortalità per tutte le cause, osservando per un periodo di 19 anni una popolazione composta da 48500 uomini e 56343 donne, con più di 50 anni, dei quali sono stati registrati i valori sia di indice di massa corporea (IMC o BMI) sia di circonferenza addominale. Dall’analisi dei risultati è emerso che il rischio di mortalità era più che raddoppiato tra i soggetti con valori molto elevati di circonferenza addominale (≥120 cm per gli uomini e ≥110 per le donne) rispetto ai soggetti con valori normali (< 90 per il sesso maschile, < 75 per quello femminile). La correlazione tra circonferenza addominale e mortalità, inoltre, è risultata confermata sia nei soggetti normopeso sia in quelli sovrappeso o obesi, indipendentemente quindi dall’indice di massa corporea, e per le donne il rischio aumentava più significativamente nel gruppo normopeso (25%).

 

Queste osservazioni dimostrano la rilevanza della misurazione della circonferenza addominale nella valutazione del rischio di mortalità, indipendentemente dall’indice di massa corporea e quindi dalla definizione di normopeso, sovrappeso o obesità. Quindi, avere un BMI normale ma un’obesità addominale localizzata è più pericoloso che avere un BMI totale da obesi (>30). Ciò significa, inoltre, che la prevenzione dell’insorgenza di obesità addominale può rappresentare una strategia efficace per la riduzione del rischio di morte prematura anche in soggetti normopeso.

 

In effetti, le autorità internazionali, sia europee sia americane, hanno di recente abbassato i valori di riferimento per la circonferenza vita: i precedenti 88 e 102 cm, fissati come limiti rispettivi per la donna e per l’uomo, sono stati ridotti a 80 e 94 cm. Oltre tali valori, il rischio aumenta. C’è da dire, però, che la sola misurazione sistematica della circonferenza addominale non rappresenta il gold standard per la determinazione del rischio coronarico legato all’obesità, poiché non permette di distinguere l’adiposità viscerale da quella sottocutanea.

 

È stata, quindi, proposta un’alternativa interessante: valutare la combinazione di valori elevati di circonferenza addominale e alti livelli di trigliceridi circolanti (fenotipo “ipertrigliceridemico-addominale”), facilmente utilizzabile per la stima del rischio nella pratica clinica quotidiana. I soggetti con ipertrigliceridemia e obesità addominale presentano, infatti, un profilo di rischio cardiometabolico più sfavorevole, e sono più a rischio di sviluppare la malattia coronarica.

Un altro metodo per determinare il grado di rischio è la misurazione del rapporto girovita-fianchi. I valori di riferimento più aggiornati stabiliscono che un rapporto vita-fianchi si può considerare normale se pari a 0,85 o meno nelle donne, e a 0,90 o meno negli uomini.

 

Tutti i metodi citati sono decisamente migliori del solo BMI, in quanto quest’ultimo non prende in considerazione la massa muscolare e, soprattutto, non fornisce alcuna indicazione sulla natura della massa grassa intra-addominale.

 

Un altro fattore da prendere in considerazione quando si parla di grasso addominale riguarda la differenza tra uomo e donna: la percentuale di adipe viscerale, infatti, è nell’uomo molto maggiore rispetto a quella di grasso sottocutaneo, viceversa a quanto si osserva nella donna. Questo è dovuto sia alla componente genetica sia all’azione del testosterone nell’uomo (che favorisce la creazione di grasso viscerale e contrasta quella di grasso sottocutaneo) e degli estrogeni nella donna (che promuovono l’accumulo di grasso sottocutaneo). Per questo motivo, la perdita di grasso viscerale durante una dieta dimagrante è molto diversa nei due sessi: nell’uomo avviene
 più velocemente, proprio perché il grasso viscerale subisce l’azione lipolitica molto di più rispetto al grasso sottocutaneo femminile. Più in dettaglio, durante il dimagrimento aumentano sia i neurotrasmettitori adrenalina e noradrenalina sia l’ormone cortisolo, e le cellule adipose più sensibili all’azione lipolitica di tali molecole sono proprio quelle del grasso viscerale. Quindi i grassi di deposito nel tessuto adiposo viscerale, cioè i trigliceridi, vengono mobilizzati
più rapidamente rispetto a quelli del tessuto adiposo sottocutaneo. È per questo motivo che nella donna il calo ponderale a livello addominale è più lento rispetto
a un soggetto maschile.

Questo fattore, però, non rappresenta un vantaggio per un uomo che inizi una dieta, bensì nasconde dei rischi da non sottovalutare. La dieta dimagrante, infatti, deve tenere conto della maggiore quantità
di grasso viscerale e, quindi, del pericolo che la drastica attivazione catabolica a quel livello possa danneggiare il fegato: quando si inizia una dieta molto ipocalorica, infatti, la rapida scissione dei trigliceridi in acidi grassi comporta inevitabilmente un aumento di questi ultimi a livello epatico, con tutte le conseguenze che ne derivano (riduzione della clearance dell’insulina, aumento della glicemia, riduzione delle HDL etc), e, in particolare, l’aumento dell’insulina ematica (iperinsulinemia), che a sua volta può causare ipertensione. Bisogna, quindi, programmare accuratamente il programma dimagrante, onde evitare conseguenze non visibili dall’esterno, ma non per questo meno pericolose all’interno.